19 febbraio, 2006

Pacs-Disciplina delle unioni di fatto-l'Umbria tenta la fuga in avanti


PROPOSTA DI LEGGE-Pacs,
l'Umbria tenta la fuga in avanti
La nuova norma, che prevede addirittura una sorta di cerimonia iniziale davanti al sindaco, offre agevolazioni su casa, fisco, previdenza, servizi. In un anno sono possibili anche 3 o 4 «riconoscimenti»


Depositato in Regione un progetto delle sinistre che mette sullo stesso piano famiglie fondate sul matrimonio e unioni di fatto, anche omosessuali

Da Perugia Assuntina Morresi - Avvenire Mercoledi 08 febbraio 2006

La Puglia chiama e l'Umbria risponde. È stata appena depositata anche nel cuore verde d'Italia una proposta di legge "Disciplina delle unioni di fatto", targata DS, Sdi, Rifondazione Comunista, Verdi e Comunisti Italiani. Nel testo vengono definite unioni di fatto quelle fra «due persone maggiorenni, non unite in matrimonio tra loro o con altre persone, né vincolate ad altre persone ai sensi della presente legge»: omo ed eterosessuali, quindi, che vogliono «organizzare insieme la vita comune, con l'obiettivo di assicurare reciprocamente solidarietà, aiuto morale e materiale».
Nella relazione introduttiva si specifica che «questa proposta di legge non intende equiparare i componenti di una unione di fatto ai coniugi, se non per casi particolari», ma leggendo gli articoli proposti si capisce che le cose non stanno così, a cominciare dal fac-simile di cerimonia iniziale: in presenza di due testimoni e davanti al sindaco la coppia dichiara il proprio accordo, che viene annotato nel registro dello stato civile. L'unione di fatto così sancita è equiparata al nucleo familiare per ottenere mutui ad interesse agevolato, per l'acquisto di immobili, per l'inserimento nelle graduatorie per l'edilizia popolare, ma anche per ciò che riguarda lavoro e previdenza sociale, per le «facilitazioni, i contributi e le modalità di accesso ai servizi socio-educativi, socio-sanitari e formativi» e per le norme penali. Inoltre, per i figli che eventualmente nasceranno, valgono le stesse norme di successione che per quelli legittimi ed entro certi limiti di tempo la paternità è attribuita al componente maschio dell'unione. Nell'ansia di equiparare coppie omo ed eterosessuali i legislatori non hanno evidentemente preso in considerazione le conseguenze di quest'ultima disposizione nel caso di coppie omosessuali femminili, in cui entrambe i componenti possono chiaramente avere figli. Chi sarà il padre "attribuito"? Per sciogliere l'unione le pratiche sono più sbrigative: «L'unione di fatto è sciolta anche per volontà di un solo contraente». Si viene convocati entro tre mesi dalla richiesta anche di uno solo dei due - «un periodo di tempo sufficientemente significativo», secondo i proponenti la legge - e davanti a un ufficiale di stato civile, senza testimoni stavolta, è sufficiente che si presenti, di nuovo, anche uno solo uno dei due per dichiarare la propria decisione. L'unione è sciolta. Un divorzio breve per un quasi matrimonio: in questo modo in un anno si possono stipulare comodamente tre unioni di fatto, ma tecnicamente ci sono anche i tempi per quattro.
Nella relazione introduttiva i proponenti spiegano che l'esigenza di riconoscere e formalizzare le unioni di fatto «risponde ad una domanda ormai presente e diffusa anche in Umbria», anche se, come nel resto d'Italia, i registri delle coppie di fatto istituiti da anni in diversi comuni sono clamorosamente vuoti: lo scorso agosto si contavano ben cinque coppie a Perugia, nessuna a Gubbio, Spello e Cannara.
Scarsa l' effettiva appetibilità di una legge simile per le coppie eterosessuali, per le quali il matrimonio civile offre comunque maggiori tutele. E se veramente, come dichiarato nell'introduzione alla proposta di legge, con queste disposizioni si volesse offrire aiuto agli anziani «che, per ragioni pure economiche e di solitudine, decidono di abitare insieme», non si capisce perché la possibilità sia offerta solo a coppie e non anche a nuclei di tre o quattro persone.
La vera innovazione è ovviamente il riconoscimento delle coppie omosessuali e la loro equiparazione a quelle eterosessuali coniugate in gran parte degli ambiti del diritto. In regione ci si chiede come si comporterà a riguardo la Margherita, che non figura fra i firmatari ma che fra gli assessori regionali annovera anche Maria Prodi, nipote di Romano. Un testo come quello presentato difficilmente si presta a compromessi, e si prevedono difficoltà per la componente moderata.
Insomma, ci hanno detto per trent'anni che per amarsi non serviva un pezzo di carta, che «il nostro anniversario non è sul calendario», come cantava anche Domenico Modugno. Hanno cambiato tutti improvvisamente idea?

1 commento:

umbriafamiglia ha detto...

Famiglia o famiglie?

dieci tesi su unioni di fatto, Pacs, gay

Testo liberamente tratto dalla rivista “Sì alla Vita” di dicembre 2005
offerto ad uso interno

Appello alla ragione

Da tempo si è fatta vivace anche in Italia la discussione sull’omosessualità, le
coppie di fatto, i patti di solidarietà civile, i pretesi diritti di uguaglianza con le
persone sposate, dei gay e delle persone conviventi non sposate.
Si tratta di un dibattito che per alcuni aspetti coinvolge competenze scientifiche
di varia natura: biologiche, psicologiche, antropologiche, giuridiche.
Non dovrebbe essere banalizzato con la ripetizione di luoghi comuni,
manifestazioni istintive o acritiche affermazioni ideologiche.
Tuttavia la riflessione non può essere lasciata in esclusiva agli “esperti”. Tutti
devono formarsi idee chiare e divenire capaci di motivarle perché tutti devono
con il voto politico fare scelte di persone che sostengono nelle istituzioni l’una
o l’altra tesi e si tratta di argomenti capaci di incidere profondamente sulla vita
di tutti, particolarmente sulle generazioni future.
Inoltre la “cultura” vive soprattutto nel modo di pensare della gente semplice,
quella che va a fare la spesa al supermercato, che va a lavorare in fabbrica o in
ufficio, che ha come massima aspirazione il futuro dei propri figli e il benessere
della propria famiglia, insomma che non scrive articoli sui giornali, non parla
in pubblici consessi, non partecipa a trasmissioni televisive.
Questa gente non ha tempo e modo di approfondire i problemi nelle
biblioteche, ma è quotidianamente sotto il bombardamento dei grandi mezzi
di comunicazione sociale, (film, rappresentazioni televisive, talk show, reality
show, notizie di cronaca) che hanno prevalentemente abbracciato una sola tesi
e la propagandano con una potenza che, alla fine, determina quella che è stata
chiamata una vera e propria “colonizzazione dei cervelli”.
Occorre reagire per restituire alla gente la libertà di pensare con la propria
testa ed occorrono costruttori di questa libertà, cioè donne ed uomini capaci di
parlare in mezzo alla “gente semplice” con parole persuasive, ma non banali,
argomentate ma non difficili a capirsi, fondate su dati scientificamente solidi,
ma espresse in linguaggio divulgativo.
Attualmente la cultura della vita, oltre a coinvolgere lo sguardo verso l’uomo
nelle fasi più deboli dell’esistenza umana, quali sono quelle del nascere e del
morire, deve affrontare anche il tema della famiglia.
Il valore della vita e quello della famiglia sono strettamente collegati: l’uno
spiega e consolida l’altro. In certo modo il fatto che nessuno possa esistere
senza essere “figlio” dimostra che la famiglia indica il senso dell’esistenza
umana e peraltro verso ognuno può verificare quanto sia vero che “l’uomo
non può vivere senza amore” e quanto, anche sperimentalmente, la famiglia
sia l’ambiente che può favorirne, di regola, nel massimo grado possibile, la
crescita in umanità.
Questo dossier vuole essere una risposta alle precedenti rapide riflessioni. Vuole
essere uno strumento messo in mano a gente ”semplice”. Un argomentario per
far chiarezza.

1. Prima di discutere sulle unioni di fatto e sui gay, bisogna
riflettere sul matrimonio.
Chi chiede che anche persone dello stesso sesso possano sposarsi o che le
convivenze “more uxorio” (cioè come se fossero sposate e, dunque, determinate
cioè da un legame affettivo e sessuale) siano equiparate al matrimonio invoca il
principio di eguaglianza: perché - dicono - un uomo che “ama” un altro uomo o
una donna che “ama” un’altra donna non potrebbero avere gli stessi diritti di un
uomo che sposa una donna e viceversa? Perché un uomo e una donna che hanno
vissuto gran parte della vita insieme come se fossero stati marito e moglie,
assistendosi reciprocamente e magari accudendo insieme ai loro fi gli dovrebbero
trovarsi in una situazione diversa da quelli che si sono sposati? Una cerimonia,
una forma esteriore può fare la differenza? Non vi è in questo una inaccettabile
discriminazione? Chi è favorevole ai matrimoni gay e alla sostanziale più o
meno intensa equiparazione delle coppie di fatto a quelle matrimoniali ha buon
gioco in operazioni apologetiche che toccano il lato emotivo.
Alla televisione si fanno parlare persone che raccontano la loro sofferenza
rappresentandosi come vittime di discriminazione.
A ben guardare l’argomento sceglie come punto di partenza l’individuo. È
questo che viene sottoposto alla lente di ingrandimento con i suoi desideri e il
suo vissuto particolare. Ma le emozioni possono divenire una mortificazione
della ragione, la quale deve allargare lo sguardo sulla complessità dei rapporti,
delle conseguenze, delle architetture sociali. Il punto di partenza non può essere
solo la condizione dell’individuo. Il principio di eguaglianza è qualcosa di
estrema importanza. Quanto alla dignità umana il Presidente della Repubblica è
uguale all’ultimo barbone, il premio Nobel al malato di mente, il vincitore delle
olimpiadi al disabile in carrozzella. Ma allora perché solo la donna incinta non
può essere adibita a lavori gravosi, perché il minore di I 8 anni non può stipulare
validamente contratti, l’imbianchino non può fare l’idraulico?
È tanto importante il principio di eguaglianza che è consacrato nell’art. 3 della
nostra Costituzione: “tutti i cittadini sono uguali senza distinzione etc. . .”.
Ma c’è anche l’art. 29 della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti
della famiglia come società naturale, fondata sul matrimonio”. “Fondata sul
matrimonio”: proprio così è detto. Cioè il matrimonio è il fondamento della
famiglia. Perché? Evidentemente il Costituente non ha pensato alla cerimonia,
all’abito bianco, ai confetti. Ci deve essere qualcosa di molto più profondo.
Dunque, prima di esaminare la condizione degli omosessuali o dei conviventi,
bisogna capire che cosa è il matrimonio. Questo è il punto di partenza. Si noti
bene: non si parla del matrimonio sacramento, celebrato in chiesa.
Si parla del matrimonio come istituto civile. È singolare che il matrimonio sia
stato previsto e regolato dalla legge in tutti i tempi e in tutti i luoghi, quale
che fosse l’ambiente culturale e religioso. Perché questa costante storica? Il
nostro codice civile circonda il matrimonio con una notevole quantità di regole:
sugli impedimenti, le cause di nullità, il regime patrimoniale, la filiazione, le
successioni, l’assistenza, lo scioglimento, etc. Molte di queste disposizioni sono
inderogabili. I giuristi le chiamano “imperative” o “di ordine pubblico”. Ciò
significa che il matrimonio non riguarda solo i privati che si sposano, ma tocca
interessi pubblici, cioè collettivi. Perché? È evidente che non basta rivolgere lo
sguardo ai desideri e agli interessi privati dei singoli individui. Prima bisogna
capire che cosa è il matrimonio e perché entra nel diritto pubblico. Poi viene la
discussione sul resto.

2. La famiglia è il nucleo fondamentale della società e dello Stato.
Questa affermazione è talmente evidente e condivisa che sta scritta proprio in
questo identico modo e con queste parole nell’articolo 16 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, adottata dallo Onu nel 1948, oggi accettata da
tutti gli Stati della terra e ripetuta in molti altri documenti internazionali: si
trova, infatti, nell’art. 23 del patto sui diritti civili e politici, siglato nel 1966;
nell’art. 10 del patto internazionale del 1966 sui diritti economici, sociali e
culturali; nell’art. 16 della Carta sociale europea del 1961 ; in molte Costituzioni
nazionali.
“Nucleo fondamentale” significa che senza la famiglia mancano le fondamenta
della Società e dello Stato.
È necessario capire perché. Senza la diversità sessuale non ci sarebbero figli e
senza la successione delle generazioni non ci sarebbe più storia, futuro. Non ci
sarebbero più Stato né società. Ma il dato biologico è ancora poco. È esperienza
comune, oltrechè verità dimostrata da psicologi e sociologi, che la crescita
armonica dei bambini, degli adolescenti e dei giovani ha bisogno di un ambiente
dove si incontri sicurezza, amore, solidarietà. Il meglio è che ogni figlio faccia
esperienza della forza di un padre e della tenerezza di una madre.
In questo modo i cittadini del futuro sono assicurati non solo biologicamente,
ma anche in quanto “buoni cittadini”, capaci di fornire un apporto positivo alla
società ed allo Stato.
Per questo la società e lo Stato hanno un bisogno essenziale di famiglie solide,
stabili, unite.
Per questo le famiglie sono “fondamento” della Società e dello Stato.
Purtroppo ci sono anche figli orfani e abbandonati e, fortunatamente, non pochi
tra loro divengono cittadini ottimi.
Purtroppo ci sono anche violenze ed egoismi familiari di cui non pochi figli
recano le tracce. Ma nella grande maggioranza dei casi “il meglio” per ogni
nuovo essere umano che viene alla luce è avere un padre e una madre, che
si vogliono stabilmente e definitivamente bene e che creino intorno a lui un
armonico ambiente di amore. Questo è “il meglio” anche per lo Stato. Non
a caso nell’antico diritto romano si legge che la famiglia è “seminarium rei
publicae”, il seminario dello Stato.
Già queste rapide, ovvie considerazioni, rendono evidente la differenza decisiva
tra le coppie eterosessuali (meglio: normosessuali [1]) e le coppie omosessuali.
Le prime sono in grado di generare ed educare nuovi cittadini; le seconde non
lo possono per definizione. Dunque le prime interessano lo Stato, in quanto
possono realizzare una finalità di interesse collettivo (pubblico); è comprensibile
invece che lo Stato riguardo alle seconde debba tenere un atteggiamento di
neutrale indifferenza, perché gli interessi in gioco sono solo privati, non toccano
l’interesse collettivo.

3. Il matrimonio consiste in una pubblica assunzione di
responsabilità verso la società e verso lo Stato.
Se la famiglia è “fondamento” e come tale è indispensabile per lo Stato,
l’interesse pubblico investe anche l’atto che costituisce la famiglia. Si ripete:
qui non si parla del sacramento, riguardo al quale molte e straordinariamente
ricche di umanità sarebbero le considerazioni che si potrebbero fare. Qui si parla
solo di matrimonio dal punto di vista dello Stato, cioè in quanto istituto civile.
È evidente l’interesse pubblico che l’uomo e la donna, quando decidono di
formare una famiglia, lo facciano con serietà, responsabilità e consapevolezza.
Nella modernità questo obiettivo non viene prevalentemente perseguito con
strumenti repressivi, ma, piuttosto, con mezzi promozionali.
È interesse pubblico che i figli nascano in costanza di matrimonio. Per questo
esiste ancora quella distinzione tra figli legittimi e naturali, che, giustamente,
la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha reso pressoché totalmente priva
di effetti pratici. Per contemperare diversi interessi e per dare giustamente
prevalenza agli interessi dei figli (su cui - come un tempo si diceva - “non
debbono ricadere le colpe dei padri”) la legge non chiama più illegittimi i figli
nati fuori dal matrimonio ed ha reso fondamentalmente uguale la posizione di
tutti i figli, comunque nati, ma resta la distinzione, che non è solo verbale per
qualche secondario effetto.
Analogamente l’interesse pubblico è che la coppia sia stabile. Non è questa la
sede opportuna per ripetere gli argomenti di natura razionale che potrebbero
essere esposti in favore della indissolubilità del vincolo.
Basta soltanto sottolineare la essenziale differenza che intercorre tra un impegno
reciproco di comunione e solidarietà spirituale, fisica ed economica totali (e
cioè per sempre) ed un patto ipotetico in cui l’uomo e la donna, come in un
contratto di affitto, si impegnassero a vivere insieme per un anno o per sei mesi,
comunque per un tempo definito. La totalità del dono reciproco implica anche
una proiezione nel tempo. Ed è indiscutibile che questo, in generale, corrisponde
anche all’interesse dei figli e quindi della società e dello Stato.
Ciò è tanto vero che il divorzio negli ordinamenti civili è pensato come un evento
eccezionale, per quanto grande possa essere la sua frequenza, ed è circondato
da filtri e resistenze che mostrano la preferenza pubblica per una continuità
del rapporto coniugale e il carattere di rimedio del divorzio, laddove i coniugi
per circostanze oggettive o soggettive, non riescano a mantenere l’originario
impegno assunto.
Insomma anche in un sistema ferito dal divorzio resta vero che l’interesse
collettivo “preferisce” (per usare una espressione mite) che la famiglia sia
costituita in modo saldo e durevole. L’essenza civile del matrimonio, pertanto,
non consiste nella forma esterna (la cerimonia, gli atti che si sottoscrivono), ma
in una pubblica assunzione di responsabilità verso la collettività. Gli interessi
di ciascun coniuge di coabitazione, fedeltà, assistenza, collaborazione, ricordati
dall’art. 143 c.c. non hanno come destinatario soltanto l’altro coniuge, ma
anche lo Stato. Il matrimonio non riguarda soltanto gli sposi. Se così fosse
non sarebbero necessarie forme pubbliche. L’impegno potrebbe essere preso
del tutto privatamente. Molti pensano effettivamente che l’autenticità dei
sentimenti di affetto reciproco sarebbe meglio dimostrata rifiutando l’orpello
delle dichiarazioni formulate, dichiarate e scritte dinanzi a un pubblico ufficiale,
ma dimenticano questo aspetto di interesse pubblico del matrimonio.
Ad esso è collegata anche l’esigenza di certezze nei rapporti giuridici.
È innegabile. Ma sembra prevalente l’assunzione di responsabilità verso la
collettività, che spiega il favore per il matrimonio dell’ordinamento giuridico.

4. La semplice “compagnia” delle persone non tocca
l’interesse pubblico, può svolgersi nel “privato”. Lo Stato
ha il solo compito di garantire la libertà delle persone.
Due o più persone possono vivere insieme per le più svariate ragioni, talora
nobilissime: studenti che decidono di occupare lo stesso appartamento per tutto
il tempo degli studi universitari; studiosi che decidono di lavorare insieme,
magari per l’intera vita, al fine di effettuare ricerche particolarmente utili per
la società; poveri che cercano di poter così dividere le spese e di garantirsi una
reciproca assistenza; religiosi che vogliono condividere una vita di preghiera e
di lavoro.
Gli esempi possono moltiplicarsi all’infinito. Naturalmente possono stabilirsi
rapporti affettivi di amicizia anche molto intensi. Queste variegate forme di
convivenza toccano l’interesse pubblico? Evidentemente no. Esse si costituiscono
e si svolgono nell’ambito della libertà. Sono i privati che nell’ambito della loro
autonomia decidono e stabiliscono durata e regole della loro convivenza. Lo
Stato ha soltanto il compito di garantire la loro libertà. Se qualcuno tentasse di
impedire la convivenza con metodi violenti dovrebbe intervenire la forza dello
Stato.
Questo discorso ha bisogno di qualche precisazione. Se la vita comune ha lo
scopo di ottimizzare obiettivi di solidarietà (si pensi a una casa d’accoglienza
per disadattati, al lavoro di promozione umana nel Terzo Mondo, a un grande
progetto scientifico) lo Stato può e deve sostenere l’azione dei privati, ma non
è la eventuale convivenza che in sé costituisce un bene pubblico, ma, piuttosto,
il fine per realizzare il quale la «compagnia” è strumentale. Ma la compagnia
può avere anche fini negativi, fino, ad esempio, a divenire strumento di una
associazione per delinquere. In tal caso lo Stato interviene per impedirla. Ma la
compagnia, anche nella forma di convivenza, appartiene al diritto privato. Ognuno
si comporti come crede. Non c’è motivo perché la società debba incoraggiarla
o promuoverla. Nell’ambito della loro libertà le persone conviventi possono
stabilire contrattualmente, in forma scritta o - secondo i casi - semplicemente
verbale, impegni reciproci: come contribuire alle spese; possono fare acquisti e
affitti congiuntamente; possono stipulare polizze assicurative a favore dell’altro,
etc... Nell’ambito della autonomia rientra anche il potere testamentario: nel
rispetto delle quote riservate per legge, la parte disponibile può essere lasciata a
chiunque, anche ai conviventi.
La conclusione è chiara: il matrimonio appartiene anche alla sfera del diritto
pubblico; la compagnia e la convivenza appartengono esclusivamente alla
sfera del diritto privato e pertanto può esigere la garanzia della libertà, ma non
incoraggiamento, aiuto e sostegno.

5. Le persone omosessuali hanno la stessa dignità umana di
chiunque altro, ma non possono pretendere di introdurre
le loro eventuali convivenze nel concetto e nella disciplina
del matrimonio.
I gay sostengono che a loro è una condizione come qualsiasi altra, e perciò
appartiene alla normalità. Sostenuti dai grandi mezzi di informazione, da
importanti lobby internazionali e soprattutto dagli esiti della “rivoluzione
sessuale”, essi rivendicano il diritto ad essere riconosciuti come uguali
proclamando il loro “orgoglio” nei folkloristici “gay pride”.
A livello internazionale essi sono riusciti persino a cambiare le parole per
indicare i maschi e le femmine. “Gender” (letteralmente, in inglese, “genere”
ma con significato diverso dal termine italiano: non più quello di nascita, ma
quello prescelto) è il nuovo nome che dovrebbe comprendere i maschi, le
femmine, e le persone che, a prescindere dal loro sesso reale, hanno tendenze
omosessuali maschili o femminili ovvero che hanno propensioni ambivalenti o
che ritengono di sentirsi più a loro agio nell’altro sesso. I “generi”, riguardo al
sesso, sarebbero perciò cinque, non più due. Questo modo di vedere è penetrato
persino nel progetto di Costituzione europea, dove il principio di eguaglianza
è formulato non solo con riferimento alle condizioni economiche, sociali, di
lingua, di etnia, di religione etc,, ma anche alle “tendenze sessuali”.
In due risoluzioni, la prima del 1994 “sulla parità di diritti per gli omosessuali
nella Comunità” e la seconda del 2000 “sul rispetto dei diritti umani nell’Unione
Europea relativamente al biennio 1998-1999”, il Parlamento europeo ha
chiesto di riconoscere legalmente la convivenza al di fuori del matrimonio
indipendentemente dal sesso. Alcuni Stati (Olanda - Belgio) sembrano andare
nella direzione che parifica al matrimonio le unioni omosessuali; altri (Francia,
Spagna, Portogallo) prevedono soltanto una registrazione delle unioni e vi
collegano elementi parziali di natura patrimoniale e previdenziale.
In Italia alcuni comuni, specialmente in Toscana, ma anche altrove, hanno
istituito un registro delle “unioni civili”, comprensive di quelle omosessuali,
non imposto né vietato dalle leggi, privo di effetti sostanziali, anche di natura
anagrafi ca, la cui funzione è manifestamente ideologica. Ma in Emilia -
Romagna ha suscitato molto scalpore la legge regionale del 14.3.84 n. 12, oggi
legge regionale 8.8.2001 n. 24, che, ai fini della assegnazione di alloggi di
edilizia pubblica, introduce nel concetto di ‘nucleo familiare” anche le coppie
omosessuali. In Parlamento sono state presentate 14 proposte di leggi alla
Camera [2] e ben 6 disegni di legge al Senato [3] sulle convivenza dì fatto tra le
quali molte collocano esplicitamente anche le coppie omosessuali, che, peraltro
rientrano implicitamente anche nelle altre proposte.
Per quanto conturbante, il fenomeno è quindi importante e deve esse re affrontato
con razionalità e alla luce del sole, anche se non vogliamo qui affrontare le
cause dell’omosessualità che molti considerano non una “condizione”, ma un
“disturbo” cioè qualche cosa di anormale, che deve essere curato.
Molte sono le domande che lasciamo agli scienziati. È aumentato il numero
delle persone omosessuali? La loro condizione ha non colpevoli origini
genetiche oppure dipende da fattori psicologici sopravvenuti? E quali
potrebbero essere le cause psicologiche? L’educazione familiare? Il ruolo
paterno e materno? L’ambiente dei coetanei? Le suggestioni esemplificanti dei
mezzi di comunicazione sociale? Il fissarsi di tendenze che nel periodo dello
sviluppo adolescenziale, in sé normalmente disarmonico, non hanno caratteri di
anormalità? Paure ed ansie che non hanno consistenza reale, ma che forniscono
alla persona una rappresentazione di sé diversa dalla sua realtà? Quale deve
essere l’atteggiamento di genitori, educatori e in genere della società rispetto
alla persona che ha tendenze omosessuali, o che crede di averle?
Non pretendiamo di rispondere a queste domande. Alcune considerazioni
appaiono comunque certe, quali che siano le risposte.
La prima è che anche le persone con tendenze omosessuali sono portatrici
di dignità umana perfettamente uguale agli altri. Perciò è ingiusta ogni
discriminazione che riguardi il singolo come tale, sia riguardo al comportamento
nei loro confronti (ogni irrisione deve essere condannata), sia nella disciplina
dei rapporti intersoggettivi, di lavoro etc. che non toccano la questione del
matrimonio.
La seconda è che spesso le persone con tendenze omosessuali, reali o presunte,
sono spesso persone sofferenti verso le quali è doveroso un atteggiamento di
serena accoglienza e di aiuto che rimuove censure, paure, condanne.
La terza è che la pretesa di sottrarre l’esercizio della sessualità a qualsiasi
valutazione etica è sbagliata. Secondo la tesi fondamentale della rivoluzione
sessuale l’unico criterio che giudica la sessualità è il principio del piacere. Questo
è inaccettabile sia per le persone normosessuali che per quelle omosessuali. Lo
sforzo per condurre una vita casta riguarda tutti, sposati e celibi, omosessuali ed
eterosessuali. L’uso della parola “peccato” con riferimento alle sole propensioni
istintuali è del tutto improprio. Il giudizio può riguardare i comportamenti, non
le difficoltà che possono addirittura trasformarsi in virtù.
Ma è altrettanto necessario affermare con chiarezza che la convivenza
omosessuale non può in alcun modo essere assimilata a quella matrimoniale.
L’ordinamento giuridico non può considerare di interesse pubblico una
convivenza che per definizione non può generare figli. Contemporaneamente
la disapprovazione etica dei comportamenti non può determinare proibizioni
legali. Non è per nulla in gioco il principio di eguaglianza, ma soltanto la
distinzione tra interesse pubblico e interesse privato.
Si obietta che il matrimonio può essere celebrato anche da persone anziane
del tutto incapaci di generare e che nel diritto civile “l’impotentia generandi”
(incapacità di generare) non è causa autonoma di nullità del matrimonio. Si
risponde che sarebbe alquanto oppressivo lo Stato che andasse a verificare se
una persona è o no capace di generare.
Un tale Stato dovrebbe controllare anche la volontà di generare di persone
organicamente feconde. Il dato di fatto che l’ordinamento prende in considerazione
è la diversità sessuale maschile e femminile come ontologicamente destinata
a garantire la continuità della comunità civile. Perciò valorizza la differenza
sessuale e non introduce sindacati inopportuni sulle intenzioni e sulle capacità
delle persone. La soddisfazione personale non centra. Non si capisce perché lo
Stato dovrebbe creare un regime di promozione e protezione per la convivenza
di due persone dello stesso sesso qualificata dai rapporti sessuali e non per
convivenze gratificanti e capaci di far crescere in umanità caratterizzate non dai
gesti sessuali, ma da un impegno di studio, di lavoro e/o, magari di preghiera
come avviene in molti casi.
Né si capisce perché - una volta imboccata la strada che conduce nell’area
dell’interesse pubblico la “compagnia” in quanto elemento di sviluppo della
personalità - ci si debba fermare a considerare le convivenze costituite da due
persone e non anche quelle più numerose.

6. Il rapporto genitori-figli è di pubblico interesse e deve
essere qualificato di carattere familiare anche quando
manca il matrimonio tra i genitori.
Si è discusso in questi ultimi anni, soprattutto in ambito europeo ed internazionale,
quando si trattava di elaborare documenti sulla famiglia, se il linguaggio doveva
usare il singolare (“famiglia”) o il plurale (“famiglie”). Come spesso accade la
semantica nasconde l’ideologia: l’uso del plurale vuol fare intendere che quella
fondata sul matrimonio è una tipologia di famiglia, ma non è l’unico modello.
Le tesi qui esposte partono dalla convinzione che la definizione della famiglia
è una sola ed è quella contenuta nell’art. 29 della nostra Costituzione dove si
legge che “la Repubblica riconosce la famiglia come società naturale fondata
sul matrimonio”. Per ragioni di brevità si omette il commento sul carattere
“naturale” della famiglia, salvo segnalare che la “naturalità” la distingue dalle
altre formazioni sociali indicate nell’art. 2, che riconosce i diritti dell’uomo sia
come singolo, sia nelle “formazioni sociali” ove si svolge la sua personalità.
È da sottolineare, invece, che la ragione per cui lo Stato considera la famiglia
come una entità di rilevanza pubblica (in vista delle generazioni future) esige
che proprio la cura e l’educazione dei figli sia obiettivo di pubblico interesse
anche a prescindere dal coniugio tra i genitori. Difatti l’art. 30 della Costituzione
non lascia questi compiti alla libertà dei privati, ma stabilisce, all’art. 30, che i
genitori hanno il dovere di “mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati
fuori del matrimonio”.
Non si può dunque negare che la ragazza madre e i figli che ella tiene con
sé costituiscono una famiglia (in questo caso “famiglia” indica una comunità
naturale, sia pure incompleta, tra madre e figlio). L’esistenza di un matrimonio
è l’ideale, ma qualora esso non sia stato realizzato bisogna egualmente che i
compiti propri e più alti della convivenza matrimoniale siano egualmente svolti
per quanto possibile.
I diritti di famiglia di cui parla l’art. 29, sono strumenti a servizio dei diritti
dell’uomo e la tutela della famiglia non significa affatto che non si debba tener
conto anche dei diritti del singolo, senza distruggere la famiglia. Non a caso
l’ultimo comma dell’art. 30 stabilisce che “la legge assicura ai figli nati fuori
del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei
membri della famiglia legittima”. La riforma del diritto di famiglia del 1975
ha giustamente equiparato quasi in tutto i figli naturali a quelli legittimi, ma ha
lasciato distinzione per non distruggere “il meglio” che, proprio per i figli, è il
matrimonio. Tuttavia la forte tutela dei figli naturali dimostra che l’ordinamento,
oltre che al principio di tutela della famiglia fondata sul matrimonio, si ispira
anche ad un altro principio molto giusto: quello della tutela dei diritti umani del
singolo.
In altri termini la protezione della famiglia in quanto fondamentale strumento
di bene comune (cioè dei “diritti della famiglia”, come dice l’art. 29 Cost.) ben
può e deve accordarsi con la protezione dei diritti dell’uomo in quanto tale.
Nel caso dei figli il diritto individuale umano ad essere mantenuti, istruiti ed
educati che è rafforzato dal matrimonio dei genitori per l’impegno di stabile
alleanza tra loro e per la struttura complessiva di solidarietà tra tutti i membri
della famiglia, deve essere affermato singolarmente nei confronti della madre e
del padre anche se il matrimonio non c’è stato e persino se il rapporto generante
è stato episodico, casuale e, magari contro la fedeltà matrimoniale.
Questo principio è importante perché, come si vedrà meglio illustrando la
successiva 8a tesi, molte tutele richieste dai conviventi di fatto in nome di un
parallelismo con il matrimonio, sono previste o prevedibili in quanto relative
ai singoli diritti umani, senza bisogno di deformare o addirittura distruggere
l’istituto matrimoniale.

7. L’adozione dei minori non si fonda sul diritto degli adulti
di avere figli, ma sul diritto dei bambini di avere una famiglia.
Poiché non poche proposte di legge intendono consentire l’adozione anche a
coppie di fatto, anche omosessuali e persino a persone sole, occorre richiamare
il principio enunciato in questa 7a tesi, il quale è tanto ovvio e giusto da essere
enunciato persino nel titolo della vigente legge sull’adozione (L. 4.5.83 n 133,
come modificata dalla L. 28.3.2001 n. 25 “il diritto del minore ad avere una
famiglia”).
L’antica idea, risalente al diritto romano, che l’adozione sia un mezzo per dare
fi gli a chi non ne ha è stata capovolta, quanto ai minori, nella cultura moderna e
l’ordinamento italiano, a partire da una prima legge del 1967, è all’avanguardia
nel mondo in questa direzione. Il presupposto dell’adozione è l’abbandono
materiale o morale di un minore da parte dei genitori biologici.
Ma il bambino ha diritto ad una famiglia ed ecco, allora, il rimedio dell’adozione.
In tale ottica è doveroso che allo adottando sia offerto “il meglio” per quanto
è umanamente prevedibile, una famiglia nella sua pienezza, cioè fondata sul
matrimonio ed un padre ed una madre, che possano dare l’apporto delle diverse
componenti di mascolinità e di femminilità e che abbiano una età tale da rendere
razionalmente prevedibile la disponibilità di energie educative ottimali.
Non esiste un diritto di adottare e, conseguentemente, coppie di fatto, singoli e
omosessuali non possono invocare il principio di eguaglianza.
È assolutamente prioritario il bene dei figlio. Proprio in nome di questo bene
possono ammettersi eccezioni, la più importante delle quali si verifica quando
non si trovano coppie coniugate che vogliono adottare quel determinato
bambino. Ma si tratta di ipotesi marginali del resto già previste dalla legge .
Le coppie di fatto potrebbero essere ammesse all’adozione solo se vi fosse un
gran numero di bambini adottabili e fosse, invece, insufficiente il numero delle
coppie coniugate disponibili ad adottare. Ma così non è.
Anzi, un gran numero di coppie idonee non ottiene l’adozione perché non ci sono
bambini adottabili, per molte ragioni, tra le quali la più drammatica è l’aborto
di massa, socialmente accettato e finanziato dallo Stato, senza che l’adozione
venga neppure pensata come possibile estrema alternativa alla eliminazione di
un figlio.
Pertanto a pretesa di inserire un inesistente diritto di adozione come diritto dei
singoli, dei gay e della coppie di fatto è umanamente ingiusta e giuridicamente
scorretta.

8. Molte delle ragioni in base alle quali si pretende la
legalizzazione delle coppie di fatto sono già soddisfatte
dall’ordinamento vigente in base ai diritti che i cittadini
hanno in quanto cittadini senza necessità di stabilire una
più o meno intensa parificazione della convivenza di fatto al matrimonio
Per ottenere la legalizzazione delle coppie di fatto si propongono temi che
suscitano emozione, ad esempio domandano: perché una donna che ha vissuto
una vita insieme ad un uomo, a cui ha dato amore, assistenza, sostegno
economico, se muore il convivente, non deve succedere nel contratto d’affitto
da lui stipulato e sarà costretta a rimanere senza casa? Perché il convivente
non è considerato erede legittimo dell’altro convivente, così come avviene per
i coniugi? Perché se uno dei due finisce in carcere o all’ospedale all’altro non
sarebbe consentito il diritto di visita o di dire la sua in materia di cure? Perché
la pensione di reversibilità va al coniuge e non al convivente? Perché nel caso
di omicidio colposo o doloso di un coniuge il superstite potrebbe chiedere il
risarcimento del danno e, invece, il convivente “more uxorio” non potrebbe?
Perché nel matrimonio gli acquisti fatti da uno dei due coniugi finiscono nel
patrimonio comune (salvo contraria dichiarazione di volontà) e questo non
è previsto nella convivenza? Perché i coniugi sono imperativamente tenuti a
contribuire alle spese familiari, mentre un tale dovere non è stabilito dalla legge
nelle convivenze?
Anche altre domande potrebbero essere formulate. Il giurista potrebbe dare
risposte molto articolate e precise. Ma il carattere divulgativo di questo dossier
impone di fare poche ed evidenti considerazioni: gran parte delle domande
sopra indicate suppongono fatti non veri, come subito vedremo.
Ma preliminarmente si deve ricordare che esiste l’autonomia privata. Ciò
significa che i consociati possono darsi regole da sé, senza attenderle dalle
istituzioni.
Il contratto e il testamento sono tipici strumenti dell’autonomia. Se due
conviventi vogliono sentirsi anche giuridicamente obbligati a contribuire al
ménage quotidiano facendo cassa comune secondo determinati criteri, magari
con una percentuale dei relativi guadagni, basta che lo decidano e magari lo
scrivano e lo sottoscrivano su un pezzo di carta.
Del resto anche se un obbligo di questo tipo non viene prestabilito, ma, di fatto,
l’uno consuma parte delle sue sostanze per lo scopo della vita comune, nel caso
di successiva rottura della relazione non può pretendere la restituzione di quanto
erogato, perché, dice la giurisprudenza, ha adempiuto ad una “obbligazione
naturale”: non poteva essere obbligato a pagare, ma una volta pagato non
può sostenere di aver versato indebitamente. Se i conviventi vogliono che un
determinato immobile appartenga ad entrambi, basta che entrambi ne divengano
acquirenti. Se vogliono la garanzia formale che nel caso di morte di uno dei due
il quale è intestatario del contratto di affitto, l’altro non sia cacciato di casa,
basta che entrambi stipulino il contratto con il proprietario.
Ma, a proposito della abitazione, nel nostro ordinamento giuridico c’è già
una intensa protezione del convivente superstite, non in quanto convivente,
ma in quanto titolare del diritto umano di abitazione. Infatti l’art. 6 della L.
392/78 sulla disciplina delle locazioni degli immobili urbani, stabilisce, dopo
l’intervento integrativo della Corte Costituzionale (n. 404/88) che in caso di
morte del conduttore, nel contratto gli succedono non solo il coniuge, gli eredi,
i parenti e gli affini con lui conviventi, ma anche il convivente “more uxorio”.
La stessa sentenza ha deciso che nel caso di cessazione della convivenza se vi
siano figli naturali l’alloggio può restare al convivente insieme ai figli anche se
il conduttore sia altro convivente. In questo caso, con chiarezza, la Corte non
ha voluto riconoscere affatto dignità costituzionale alla convivenza, ma solo
tutelare il diritto all’abitazione in generale e quello dei figli in modo particolare.
Per analoga ragione la Corte (sentenza 559/89) ha stabilito che se l’assegnatario
ad un alloggio di edilizia popolare abbandona la residenza attribuitagli, il
convivente che sia rimasto nell’alloggio ha diritto a succedergli.
Quanto all’eredità: è vero che il convivente non è per ciò stesso erede, ma
assolutamente nulla vieta che egli sia nominato tale, come qualsiasi altra persona,
mediante testamento, ben si intende, limitatamente alla quota disponibile.
Diverso è il ragionamento riguardo alla pensione di reversibilità, che certamente
non spetta al convivente “more uxorio”. La Corte Costituzionale ha detto
che la pensione di reversibilità non è un diritto umano fondamentale (Corte
Cost. 461/2000) e che la sua attribuzione esige una certezza di rapporto che
solo il matrimonio può dare. D’altronde sarebbero immaginabili facili frodi e
l’estensione della reversibilità oltre i confini del rapporto di coniugio renderebbe
difficile non tener conto anche di altre convivenze diverse da quelle caratterizzate
dal rapporto sessuale e tuttavia implicanti una reciproca contribuzione e una
reciproca assistenza.
Comunque anche nel campo pensionistico l’autonomia privata può soddisfare il
desiderio dei conviventi mediante polizze assicurative volontarie.
Quando la morte del partner è dovuta a fatto illecito penale è riconosciuto
il diritto al risarcimento del danno morale (ed anche di quello patrimoniale,
se è provato che la convivenza era stabile e costituiva un valido presupposto
per una attesa di apporto economico futuro e costante). Peraltro tale diritto al
risarcimento non è necessariamente limitato alla categoria “more uxorio”.
Si può così verificare che molte affermazioni di carattere pratico con cui si
vorrebbe sostenere la legittimazione delle unioni di fatto non sono vere o
comunque non hanno una grande importanza.
Possiamo continuare. Per ragioni di umanità ed anche per garantire l’attendibilità
della prova, nel processo penale la legge esenta dall’obbligo di deporre come
testimone non solo i prossimi congiunti dell’imputato, ma anche il convivente
“more uxorio”, il quale può proporre anche la domanda di grazia in favore del
convivente, può avere colloqui con lui se detenuto, è tutelato come il coniuge
se viene maltrattato dal convivente ai sensi dell’art. 572 C.P. (maltrattamenti
in famiglia). Non è vero che il convivente “more uxorio”, così come ogni altra
persona legata al malato non possa assistere il compagno o la compagna degente
in ospedale e non possa esprimere il suo parere nelle cure. La legge sui prelievi
e trapianti di organi (n. 91/99) dispone che all’inizio del periodo di osservazione
ai fini dell’accertamento della morte, i medici devono fornire informazioni
necessarie al coniuge non separato o al convivente “more uxorio”.
Conclusivamente: queste rapidissime nozioni provano l’esattezza della tesi: non
c’è bisogno di sciupare il concetto stesso di matrimonio per tutelare molti diritti
e interessi degli individui tra loro conviventi.
Unica grave eccezione rispetto a quanto fin qui esposto è l’art. 5 della legge
40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Esso consente anche alle
coppie eterosessuali di fatto d’accedere alle nuove tecniche di fecondazione
artificiale.
È una ferita al matrimonio, perché, come si è visto, esso è una assunzione di
responsabilità in modo speciale in ordine alla generazione dei fi gli e l’art. 5 ne
prescinde proprio riguardo ad una generazione decisa, programmata ed eseguita
con la collaborazione delle strutture pubbliche.

9. La ragione vera, più o meno consapevole, della domanda
di pubblico riconoscimento delle unioni di fatto è di natura
ideologica e riguarda il matrimonio e la sessualità.
Non si può dire che vi sia un problema di legalizzazione delle convivenze di
fatto, perché esse già ora non sono vietate dalla legge. La questione riguarda il
loro riconoscimento come situazioni meritevoli di una particolare protezione.
Ciò è piuttosto singolare se è vero , come è vero, che gran parte degli interessi
individuali legati alla convivenza sono già soddisfatti dall’ordinamento e se è
vero, come è vero, che l’autonomia privata è libera di scegliere tra relazione
matrimoniale e non matrimoniale. In definitiva si vorrebbero i vantaggi del
matrimonio senza contrarre matrimonio. Anzi: in certe proposte si vorrebbero
solo i vantaggi eliminando i limiti e le responsabilità che discendono dal
matrimonio: ad esempio riguardo alla fine dell’unione di fatto, che può avvenire
da un giorno all’altro per semplice volontà di una parte senza le dilazioni e fastidi
giudiziari della separazione e del divorzio. Paradossalmente proprio il regime
divorzista mostra la differenza tra matrimonio e unioni di fatto. Esso suppone
la normalità della distinzione dell’originaria assunzione di responsabilità, alla
quale sono collegate le protezioni e i sostegni di legge.
Con il riconoscimento delle unioni di fatto si vorrebbero i vantaggi senza
assumere alcun impegno pubblico. Ma abbiamo visto che la gran parte degli
interessi e diritti legati alla convivenza possono essere soddisfatti utilizzando
l’autonomia privata o in base a norme che riguardano i cittadini come tali.
La stessa autonomia privata può scegliere la situazione di fatto oppure quella
matrimoniale. Non si dica che possono esservi ostacoli insormontabili. Essi
potrebbero consistere soltanto in un precedente vincolo matrimoniale.
Ma il divorzio, purtroppo entrato nel diritto e nel costume, consente di riacquistare
lo stato libero in tempi e con fatiche che non sono certo troppo grandi.
E allora? È evidente che le richieste di un pubblico riconoscimento delle
unioni di fatto non ha tanto lo scopo di consentire un rifiuto della pubblica
assunzione di responsabilità nella convivenza, ma di ottenere qualcosa di più
sottile: la valutazione del valore positivo di tale rifiuto e, quindi, ultimamente,la
proclamazione della insignificanza etica, prima che giuridica, del matrimonio
da considerarsi soltanto banale e insignificante cerimonia, retaggio del passato,
una istituzione oscurantista e bigotta.
Questa è, appunto, una delle tesi della cosiddetta “rivoluzione sessuale”.
Naturalmente non si vuol dire che quanti chiedono il riconoscimento delle unioni
di fatto vogliono fare la rivoluzione sessuale. Probabilmente operano anche
altri meccanismi psicologici: il bisogno di non sentirsi diversi, di non sentirsi
criticati, di compensare e soffocare le proprie inquietudini con l’avallo della
collettività. In ogni caso è evidente che il confronto più che a livello giuridico
si svolge a livello etico.

10. Eventuali aggiustamenti legislativi devono comunque
tener conto della distinzione tra momento genetico e
momento funzionale della convivenza.
In ogni unione, matrimoniale o di fatto, bisogna distinguere l’atto iniziale che la
genera (“momento genetico”) dal rapporto che ne deriva e che si prolunga nel
tempo (“momento funzionale”).
Nessuna norma positiva è eterna, tutte possono essere modificate, purché
resti ferma la bussola ad indicare ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Perciò
l’ordinamento attualmente vigente potrà avere correzioni e integrazioni. In tal
caso bisogna ricordare che riguardo al momento genetico non possono esistere
dubbi: solo il matrimonio va incoraggiato (si pensi alle provvidenze abitative
etc.) [7]. Invece una volta che il rapporto si è consolidato nel tempo con
indiscutibili elementi di stabilità (“momento funzionale” anche nelle famiglie
di fatto - specialmente se vi sono dei figli - possono svilupparsi anche regole che
introducono elementi di giustizia con particolare riguardo al piano economico
patrimoniale).

IN CONCLUSIONE …
Il bene comune esige che sia confermato fino alle ultime conseguenze l’art. 29
della Costituzione.
Il bene comune è il bene di tutti, quindi anche dei singoli, anche di coloro che
vivono una situazione personale o sociale di difficoltà riguardo al matrimonio.
È di estrema importanza per il futuro della società che il matrimonio conservi
il suo vero autentico significato e rappresenti un ideale forte per tutti i cittadini,
specialmente per i giovani. L’affiancamento ad esso di altre forme di unione
come meritevoli di incoraggiamento e sostegno pubblico ne determinerebbe lo
svuotamento.
Non sono in gioco la libertà e il pluralismo, perché resta la libertà dei singoli
di comportarsi come meglio credono nell’ambito del diritto privato. Proprio il
principio di eguaglianza esige che situazioni diverse siano regolate in modo
diverso. L’interesse pubblico è diverso dall’interesse privato. Assumere un
impegno pubblico con carattere di stabilità, con donazione totale della propria
esistenza, aperto alla vita, non è la stessa cosa di decidere il modo della propria
autorealizzazione con una compagnia di altra persona.
Il riconoscimento della uguale dignità di tutte le persone, anche di quelle con
tendenze omosessuali o che vivono unioni di fatto, non suppone affatto la
distruzione del matrimonio.
Su questo punto si discute non di una questione religiosa, ma di un aspetto
fondamentale della civiltà, se è vero che, come laicamente è stato ripetutamente
scritto negli atti più solenni della modernità che “la famiglia è il nucleo
fondamentale della società e dello Stato”.

NOTE
[1] Il termine “eterosessuale”, anche se è entrato nell’uso comune come contrapposto a omosessuale, è parola di Antilingua.
In realtà sarebbe molto meglio usare, a questo fi ne, l’espressione “normosessuale, normosessualità”. “Eterosessuale, infatti,
è una parola costruita appositamente per legittimare l’omosessualità e porla sullo stesso piano della sessualità normale. Va
considerato che nella parola sesso (sexus, in latino) è contenuta in radice (sec-) il concetto di secare, dividere, tagliare.
L’Adamo primigenio del racconto biblico, era un essere umano ancora indiviso e non sessuato, comprendendo entrambe le
sessualità maschile e femminile. Allorché da Adamo (nome di genere e non di persona, che significa terrestre, da “adamà”,
terra in ebraico) fu tratta la donna, il maschio si distinse dalla femmina. Nel concetto di sesso è dunque contenuta l’idea di
“alterità”: il maschio rimanda alla femmina e viceversa e i due “altri” ricompongono la loro unità originaria nell’incontro
coniugale (“una caro”, una sola carne), unità che è di per sé stessa feconda. L’idea di omosessualità (“orno” significa uguale) è
nata quando ci si è dovuti riferire all’assurdo logico e naturale di una sessualità che si completava nel medesimo sesso. Quando
gli omosessuali hanno voluto ottenere una sostanziale parità di condizione nella loro differenza, hanno dovuto inventare due
parole: prima l’inglese gay, che cerca di esprimere simpatia (gay = gaio giocoso, allegro); poi eterosessuale, che è parola con
tutta evidenza derivata direttamente non da sesso, ma da omosesso/omosessuale. Eterosessuale è, in sostanza, una tautologia,
vale a dire una ripetizione dello stesso concetto, che si potrebbe meglio rendere con “alteroalterità” e, costituisce un tentativo
di mettere sullo stesso piano due varianti della sessualità da considerare equipollenti. Accettando di definire eterosessualità
ciò che è soltanto normale sessualità, si accetta e si ratifica la legittimità etica dell’omosessualità.
E così con un gioco di parole si cambiano la morale e la cultura (cfr: P. G. Liverani, “La società multicaotica con il dizionario
dell’Antilingua”, Ares, Milano, 2005, pag. 353 sg).
Nel testo è usato talora anche il termine “eterosessuale” perché, purtroppo è ormai entrato nell’uso comune, tanto da essere
utilizzata anche nell’articolato della legge 40/2005 sulla procreazione medicalmente assistita.
[2] PDL 795 (Belillo ed altri “Disciplina dei patti di convivenza); PDL 1232 (Pecoraio Scanio ed altri: “norme sulle unioni
civili); PDL 16 10 (Soda: “disciplina dell’unione affettiva “); PDL 2982 (Grillini ed altri: “Istituzione del registro delle unioni
civili di coppie dello stesso sesso o di sesso diverso e possibilità per le persone dello stesso sesso di accedere all’istituto del
matrimonio); PDL 3296 (Grillini ed altri: “Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni di fatto”); PDL 3308 (Titti
De Simone : “norme in materia di unione registrata, di unione civile, di convivenza di fatto, di adozione e di eguaglianza
giuridica tra coniugi); PDL 3893 (Grillini ed altri: “disciplina dell’unione affettiva); PDL 4334 (Rivolta ed altri: “Disciplina
del patto civile di solidarietà”); PDL 4399 (Mussolini - Turco: “Disciplina della convivenza familiare); PDL 4405 (Mussolini:
Disciplina della convivenza familiare e norme in materia di filiazione e successione”); PDL 4442 (Buemi: Disciplina delle
unioni di fatto); PDL 4478 (Belillo ed altri: “Modifiche alla legge 4.5.83 n. 184 concernenti l’adozione dei minori da parte
delle persone singole e delle coppie stabilmente conviventi), PDL n. 4 185 (Chiara Moroni: “Istituzione del patto civile di
solidarietà e disciplina delle famiglie di fatto”); PDL n. 4588 (Iniziativa della Regione Toscana: “Disciplina delle unioni di
fatto”); PDL n. 5153 (Strano: “Modifiche al Codice Civile concernenti l’introduzione del patto civile di solidarietà”).
Tutte queste proposte sono attualmente in discussione presso la Commissione Giustizia della Camera.
[3] DDL:n. 47 (Cortiana: “Disciplina delle unioni civili); DDL n. 305 (Malabarba: “Disciplina delle unioni civili); D.D n.
1951 (Malabarba, Sodano: “Norme in materia di unioni registrate, unioni civili, comunità di fatto, di adozione e di uguaglianza
giuridica tra coniugi”); DDL n. 3134 (Viscardini: “Disciplina delle unioni di fatto” DDL n. 3534 (Garino Angius: “Disciplina
del patto di solidarietà e unioni di fatto”); DDL n. 3636 soltanto annunciato e non ancora depositato (Cossiga: “Conversione
da coppie di fatto in matrimoni civili”).
[4] L’art. 6 della legge 184/83 stabilisce che i limiti previsti in via generale dalla legge possono essere derogati quando “il
Tribunale per i minorenni accerti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore”.
La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sull’argomento ripetendo la formula che nell’adozione bisogna valutare
“esclusivamente l’interesse del minore”, non quindi quello degli adulti.
[5] Per i coniugi l’art. 143 c.c. impone un obbligo di contribuzione giuridicamente coercibile. Ciò non vale per i conviventi.
Ma per questi ultimi si ritiene applicabile l’art, 2034 c.c. secondo cui “Non è ammessa la ripetizione di quanto spontaneamente
prestato in esecuzione di doveri morali o sociali”.
[6] Si può, al limite pensare a due amici/amiche, due pensionati, un amico pensionato e uno no che si fingono gay per avere
la pensione di reversibilità.
[7] Ad esempio sarebbe ingiusto nei concorsi per ottenere l’assegnazione di un alloggio di edilizia popolare attribuire un
punteggio per una convivenza di fatto appena iniziata o decisa, mentre è giusto nel caso di matrimonio appena celebrato o di
imminente celebrazione. Si pensi anche ai prestiti agevolati per l’acquisto o l’affitto di case.